di Daniela Puzzo e Fiorenzo Conti (Società italiana di Fisiologia – SIF).
La malattia di Alzheimer è una patologia neurodegenerativa dell’età senile caratterizzata dal declino progressivo delle capacità cognitive fino a un quadro di grave demenza, tale da rendere il paziente incapace di svolgere le normali attività della vita quotidiana. L’incidenza è in costante aumento tanto da rappresentare una vera e propria emergenza socio-sanitaria. Al momento non sono disponibili strategie terapeutiche efficaci in grado di guarire la malattia o rallentarne sensibilmente la progressione, perché le cause della malattia non sono note.
Esattamente cosa è la malattia di Alzheimer?
Il cervello dei pazienti con malattia di Alzheimer è atrofico e presenta due caratteristiche: le placche senili, costituite da depositi di proteina b-amiloide e i grovigli neurofibrillari, formati da accumuli di proteina tau iperfosforilata. Negli ultimi decenni moltissimi studi si sono focalizzati sugli effetti della proteina b-amiloide che, secondo alcuni autori, esercita non soltanto un effetto neurotossico diretto sulla trasmissione sinaptica, ma avrebbe la capacità di innescare anche le alterazioni tau-dipendenti.
Considerato che diverse evidenze ottenute sia su modelli in vitro che in vivo hanno confermato il ruolo patogenetico della proteina b-amiloide, sono stati sperimentati diversi farmaci con l’obiettivo di diminuirne i livelli per ripristinare le funzioni cerebrali nei pazienti con malattia di Alzheimer. Questo approccio però non ha dato i risultati sperati.
Perché non esiste ancora una cura per la malattia di Alzheimer?
Le ragioni potrebbero essere diverse, incluso il fatto che la malattia di Alzheimer sembra avere un’eziologia multifattoriale di cui ancora non conosciamo tutti gli aspetti. Un fatto però sembra essere rilevante: la proteina b-amiloide, in un cervello sano, esercita una funzione fondamentale nei processi di plasticità sinaptica che contribuiscono alla formazione della memoria. Infatti, la somministrazione di basse concentrazioni della proteina stimola il potenziamento a lungo termine dei neuroni ippocampali, fenomeno cellulare alla base della memoria, e migliora l’apprendimento.
Inoltre, l’utilizzo di specifici anticorpi anti-b-amiloide in animali sani ha un effetto negativo sui processi di plasticità e memoria ipppocampo-dipendenti, confermando che la proteina b-amiloide è necessaria per il corretto funzionamento delle stesse aree cerebrali che si alterano nella malattia di Alzheimer. Questo effetto fisiologico è mediato dal recettore a7 nicotinico per l’acetilcolina ed è interessante notare che il deficit della trasmissione nervosa mediata da questo recettore sia un altro marker caratteristico dell’Alzheimer, tanto che i farmaci attualmente in commercio mirano proprio ad aumentare i livelli di acetilcolina alla sinapsi.
Abbiamo ipotesi sulle cause della malattia di Alzheimer?
Su queste premesse, alcuni ricercatori hanno ipotizzato che è proprio il malfunzionamento o la carenza del recettore a7 nicotinico a innescare la patologia. In uno studio recentemente pubblicato su Progress in Neurobiology (Tropea et al, Genetic deletion of α7 nicotinic acetylcholine receptors induces an age-dependent Alzheimer’s disease-like pathology), gli autori hanno infatti dimostrato che modelli di topi geneticamente modificati che non esprimono il recettore nicotinico a7 vanno incontro alle alterazioni tipiche della Malattia di Alzheimer, prima tra tutte l’aumento della proteina b-amiloide.
Si tratterebbe però di un aumento compensatorio in risposta alla carenza del suo recettore, meccanismo tipico della gran parte dei processi omeostatici del nostro organismo. Ciò, nel tempo, creerebbe un circolo vizioso che porterebbe all’accumulo della proteina a livelli tossici, con conseguente alterazione della memoria ma anche aumento della proteina tau iperfosforilata, formazione dei grovigli neurofibrillari e alterazioni sia dei neuroni sia degli astrociti.
Un nuovo ruolo per la proteina beta-amiloide.
Questa scoperta è di fondamentale importanza perché fornisce una nuova prospettiva sul ruolo della b-amiloide nella malattia di Alzheimer e contribuisce a spiegare perché molte strategie terapeutiche mirate a diminuire i livelli di b-amiloide non hanno avuto successo. Infatti, secondo questa visione, l’aumento della proteina potrebbe consistere in un tentativo dell’organismo di rispondere al processo patologico. Sarebbe dunque auspicabile cercare di comprendere più a fondo questi meccanismi per chiarire la causa dell’insorgenza della patologia e, di conseguenza, trovare nuove strategie terapeutiche razionali ed efficaci.