Quali sono le tappe dell’evoluzione umana? Cosa ci insegna la paleoantropologia? E, ancora, quale evoluzione dobbiamo aspettarci da qui in avanti? Ne parliamo con Giorgio Manzi, Professore ordinario di Antropologia alla Sapienza Università di Roma, Accademico dei Lincei e Accademico dei XL, nonché vicepresidente dell’Associazione Antropologica Italiana (A.A.I.). Divulgatore scientifico, è autore di molti libri per il grande pubblico, da Il grande racconto dell’evoluzione umana (Il Mulino, 2018) a L’ultimo Neanderthal racconta: storie prima della Storia (Il Mulino, 2021). L’ultimo lavoro, Antenati. Lucy e altri racconti dal tempo profondo (Il Mulino, 2024), in libreria da poche settimane, porta i lettori in viaggio fra le grandi scoperte che hanno permesso di ricostruire la storia dell’evoluzione umana, dal ritrovamento di Lucy in Etiopia nel 1974 a quello di Oetzi in Alto Adige nel 1991.
Partiamo da una data storica, 30 novembre 1974: Donald Johanson scopre in Etiopia lo scheletro di Lucy. Qual è la portata di questo avvenimento?
Prima di tutto fu la conferma di un’ipotesi nata almeno un decennio prima: in base al quadro della variabilità degli antenati rinvenuti fino a quel momento si doveva pensare a un antenato ancestrale vissuto ben prima di 2 milioni di anni fa. Poi, si tratta di uno scheletro largamente conservato dello stesso individuo e non di un singolo frammento di osso e questo è importante perché ci permette di estrarre molte informazioni.
Abbiamo capito, così, che questi antenati erano bipedi ma sostanzialmente diversi da noi, si trattava di “scimmie antropomorfe bipedi”, con caratteristiche legate alla vita ancora nelle foreste, un cervello piccolo come uno scimpanzé (di volume inferiore, cioè, a 500 ml, un terzo all’incirca del nostro) e con caratteristiche dentarie che rappresentano il preludio delle nostre. Lucy visse 3 milioni e 200 mila anni fa, ma la specie a cui appartiene spazia tra 4 e 3 milioni di anni fa.
La scoperta è interessante anche per la capacità di Johanson di raccontare la storia al mondo, nel libro scritto con Maitland Edey e intitolato Lucy: le origini dell’umanità: fu un passo molto significativo per la divulgazione paleoantropologica.
Insomma, la scoperta di Lucy segna una svolta
Gli anni ‘70 segnano, potremmo dire, il passaggio all’età adulta della paleoantropologia, una scienza “giovane” nata solo a metà dell’ Ottocento.
Con il ritrovamento di Lucy, abbiamo iniziato a comprendere che la storia dell’evoluzione umana è stata molto più ramificata di quello che si pensava: Lucy è come il tronco (o uno dei tronchi) di un “cespuglio” da cui si dipartono ramificazioni successive. In seguito, avremmo capito che i nostri primi antenati bipedi potrebbero avere anche 7 milioni di anni e che, quindi, il percorso ramificato dell’evoluzione umana ha avuto inizio molto prima di Lucy. Quella scoperta, tuttavia, fu cruciale: determinò la caduta della visione lineare che avevamo della nostra evoluzione.
Cosa intendiamo, ora, per evoluzione umana?
Convenzionalmente, il percorso che si diparte dalla divergenza evolutiva tra noi e gli scimpanzé, avvenuta intorno a 6 milioni di anni fa. Il DNA ci dice che siamo affini agli scimpanzé e i dati della biologia molecolari ci hanno insegnato, già dalla dalla metà degli anni ’60 del secolo scorso, che le distanze genetiche tra le forme di vita esistenti possono essere tradotte nel tempo geologico trascorso dall’antenato comune: tanto maggiore è la differenza genetica fra specie viventi, tanto più antico sarà l’antenato comune. È un procedimento a ritroso nel tempo che è stato chiamato “orologio molecolare”. Così, attraverso l’analisi della diversità genetica, possiamo risalire ai tempi della divergenza evolutiva tra noi e gli scimpanzé, i nostri “parenti” più prossimi fra i viventi.
Cosa succede con lo sviluppo della paleogenomica?
I riflettori sulla paleogenomica si accendono nel 1997, quando nel laboratorio di Svante Pääbo (Premio Nobel proprio per questo nel 2022) si estraggono segmenti DNA di una specie estinta, Homo neanderthalensis.
Negli ultimi 20 anni il progresso in questa disciplina ha galoppato, consentendo nel 2010 l’identificazione di una varietà umana estinta che fino ad allora non conoscevamo, quella dei Denisova, potremmo dire “sorella” di noi Homo sapiens e dei Neanderthal. Sono i tre discendenti di una stessa forma ancestrale, Homo heidelbergensis, che rappresentano l’esito di analoghi percorsi evolutivi.
Tre specie che per un certo periodo di tempo coesistono…
In realtà, 100 mila anni fa circa erano almeno cinque le specie che coesistevano: insieme ai tre discendenti di Homo heidelbergensis, c’erano ancora gli ultimi Homo erectus e Homo floresiensis. Queste specie hanno potuto coesistere perché si trovavano in zone diverse: quando la nostra specie si diffonde in tutto il mondo, subentrerà un meccanismo di “esclusione competitiva”, secondo cui specie simili, ma diverse geneticamente, non possono resistere a lungo negli stessi territori. Homo sapiens si adatta in modo più “intelligente” all’ambiente e le altre specie via via si estingueranno.
Come andarono le cose, in particolare, tra Sapiens e Neanderthal?
Per millenni c’è stata una lunga coesistenza fra loro e noi, e poi una convivenza negli stessi territori, fino a che i Neanderthal sono diventati sempre più esigui e si sono avviati all’estinzione. Homo sapiens prevale in virtù degli aspetti cognitivi, che si manifestano, ad esempio, attraverso l’arte rupestre e la capacità di attraversare bracci di mare per cui la nostra specie si diffonde anche in America e Australia, come mai nessuno aveva fatto prima. Questi indizi ci dicono che siamo di fronte a una specie “con una marcia in più”, i cui segreti risiedono prima di tutto in una testa più grande e “globularizzata”, che consente cioè lo sviluppo delle aree parietali dell’encefalo che hanno funzioni associative cruciali.
Cosa si intende per macro e microevoluzione?
I fenomeni macroevolutivi portano alla formazione di nuove specie, quindi rappresentano grandi passaggi evolutivi, mentre quelli microevolutivi, che avvengono tra le popolazioni di una stessa specie (anche la nostra), rappresentano diversificazioni adattative di minore entità. I grandi cambiamenti evolutivi, quelli della macroevoluzione, solitamente avvengono in piccole popolazioni isolate, nelle quali si possono fissare mutazioni genetiche, rare e potenti, in grado di deviare il corso dell’evoluzione.
Quale evoluzione ci aspetta, allora, da qui in avanti?
Mi aspetto (e, soprattutto, mi auguro), un’evoluzione culturale, più che biologica: è urgente che l’umanità si unisca tutta con uno stesso obiettivo: mettere un argine ai danni che abbiamo fatto finora all’unico pianeta che abbiamo, cessando ogni guerra e imparando a prenderci cura del nostro pianeta. Partendo dalla conoscenza del nostro passato, possiamo capire il presente e porre rimedio ai disastri fatti, meritandoci davvero l’appellativo “sapiens” che ci siamo attribuiti.