Contributo di Paolo Paoli (Dipartimento di Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche, Università di Firenze) per SIB
* immagine “enzima glicolitico α–enolasi” a cura di Paolo Paoli
Per anni si è pensato che la particolare conformazione strutturale delle proteine fosse associata indissolubilmente alla loro funzione, per cui ad ogni proteina competeva una funzione precisa. La scoperta delle Moonlighting proteins, cioè proteine in grado di svolgere due o più funzioni differenti tra loro e indipendenti, ha rivoluzionato la biologia e aperto la strada a nuovi studi che indagano la funzione di tali proteine nel contesto cellulare e le loro implicazioni sullo sviluppo di alcune malattie.
Proteine, ad ogni struttura corrisponde una funzione?
Le proteine sono macromolecole estremamente importanti in quanto rendono possibili tutte le funzioni necessarie ad un organismo per accrescersi, muoversi e sopravvivere. Tra le funzioni attribuite alle proteine, ricordiamo quella plastica e strutturale (numerose proteine modellano la forma di cellule, organi e tessuti), quella protettiva (attribuita alle proteine chiamate anticorpi), quella segnalatoria (attribuita alle proteine coinvolte nella propagazione degli stimoli) e la funzione di trasporto (tra le proteine con questa funzione possiamo citare quelle deputate al trasporto dell’ossigeno). Per ultima, ma per questo non meno importante, troviamo la funzione catalitica, attribuita principalmente a quelle proteine denominate “enzimi”, le quali agendo da biocatalizzatori, accelerano la velocità della maggior parte delle reazioni che avvengono nel corpo umano.
Dal punto di vista strutturale, le proteine sono dei polimeri costituiti da 20 differenti aminoacidi. Subito dopo la loro sintesi, questi polimeri tendono a ripiegarsi su sé stessi (processo di folding), assumendo strutture tridimensionali molto complesse. Il tipo di struttura tridimensionale generata definisce la funzione di una proteina, come evidenziato dal fatto che, molto spesso, proteine con strutture tridimensionali simili svolgono anche funzioni simili.
L’esistenza di una stretta relazione tra struttura e funzione di una proteina ha spinto la maggior parte degli studiosi a ritenere che, dal punto di vista evolutivo, ogni proteina presente nel nostro organismo fosse stata selezionata per svolgere una specifica funzione. Ciò spiega perché per molti anni, il concetto “un gene, una proteina, una funzione” ha rappresentato uno dei principali dogmi della biochimica. Tuttavia, alla fine del ventesimo secolo, tale dogma è stato messo in discussione dalla scoperta di proteine in grado di svolgere funzioni differenti e non correlate.
Una proteina, più funzioni: Moonlight proteins
Le prime proteine a cui sono state attribuite due differenti funzioni sono state i cristallini, che hanno sia un ruolo strutturale, in quanto costituiscono la porzione anatomica chiamata “lente dell’occhio” di numerosi animali, sia una funzione catalitica, agendo da enzimi. Per esempio, l’isoforma τ del cristallino della lente della tartaruga possiede una struttura e un’attività catalitica identica a quella dell’α-enolasi umana, un enzima con localizzazione citosolica che partecipa alla degradazione del glucosio. Tale somiglianza è apparsa sorprendente e, in prima istanza, difficilmente spiegabile.
Tuttavia, a partire da tale scoperta, altre osservazioni simili hanno confermato che le proteine in grado di svolgere due o più funzioni, non erano certo una rarità in natura. Al fine di identificare univocamente questa classe di proteine, nel 1999 Constance J. Jeffery dell’Università di Brandeis, nello stato del Massachusetts ha coniato il termine “Moonlighting proteins”, utilizzato, negli anni a venire, per classificare tutte le proteine che presentavano due o più attività tra loro indipendenti. Nel complesso, ad oggi, sono state identificate più di 500 “Moonlighting proteins” ed è molto probabile che nei prossimi anni il loro numero sia destinato ad aumentare rapidamente.
I vantaggi evolutivi: risparmio energetico e ottimizzazione delle funzioni
L’analisi di numerosi genomi ha confermato che le “Moonlighting proteins” non sono una eccezione, ma probabilmente un fenomeno molto diffuso in ambito biologico. Da un punto di vista evolutivo, la produzione di proteine in grado di svolgere più di una funzione offre notevoli vantaggi alle cellule, quali un risparmio energetico e una ottimizzazione delle funzioni.
Il risparmio energetico deriva in primis dal fatto che tale strategia permette di ridurre il contenuto di DNA necessario ad una cellula per accrescersi e sopravvivere, abbassando notevolmente il fabbisogno di energia legato a processi quali la duplicazione e la riparazione del DNA. Nello stesso momento, l’espressione delle “Moonlighting proteins” permette di ridurre il numero di proteine sintetizzate, senza indurre una penalizzazione dal punto di vista funzionale, dal momento che le cellule possono contare su molecole in grado di svolgere funzioni multiple.
È stato suggerito che l’evoluzione eserciti una pressione selettiva positiva nei confronti di questo tipo di macromolecole, selezionando proteine con mutazioni che hanno scarso effetto sulla funzione nativa ma favoriscono l’acquisizione di funzioni promiscue. In tal modo, una proteina in evoluzione può acquisire una maggiore idoneità per una nuova funzione senza perdere la sua funzione originale.
Ciò che, per il momento, rimane difficile da spiegare è come sia possibile che una stessa proteina possa svolgere due funzioni molto diverse ed indipendenti. In effetti, tale ostacolo può essere facilmente superato se proviamo ad allargare la nostra visione e ci sforziamo di analizzare le proteine per quello che sono, ovvero delle macromolecole versatili. Per esempio, possiamo considerare una proteina alla stregua di un pezzo di metallo, che possiamo plasmare per costruire una spada, utile a difenderci, per produrre un utensile per lavorare il legno, per produrre un componente per la nostra macchina, e per costruire una staffa che sostiene un ripiano per i libri. Tutto dipende da dove lo posizioniamo, se lo utilizziamo da solo o se lo assembliamo con altri componenti, e dalla forma che gli facciamo assumere. Analogamente, è plausibile immaginare che una macromolecola come una proteina possa essere impiegata come un materiale plastico, simile a un pezzo di metallo, in vari contesti e applicazioni. Se prendiamo in considerazione un enzima, vediamo che può essere utile per la sua capacità di catalizzare una reazione, ma anche come una macromolecola in grado di legare altre proteine o interagire con molecole di altro tipo quali i lipidi di membrana o gli acidi nucleici.
Cristallino, citocromo c e lattato deidrogenasi
Il caso del cristallino presente nella lente dell’occhio è esemplare. Questa proteina globulare possiede una lunga emivita ed è caratterizzata da una struttura molto stabile; per queste sue caratteristiche è possibile che, nel corso dell’evoluzione essa sia stata scelta per formare la lente dell’occhio di molti animali e dell’uomo stesso. Tuttavia, grazie alla sua peculiare struttura tridimensionale, questa proteina svolge anche un ruolo di regolatore metabolico, agendo nel citoplasma come lattato deidrogenasi, argininosuccinato liasi e α-enolasi, a seconda del tipo di cellula in cui è espressa. In sostanza, la stessa proteina, può essere sfruttata per le sue proprietà catalitiche o per la sua elevata stabilità conformazionale, una proprietà utile quando è richiesta la generazione di strutture fibrose stabili.
Allo stesso modo una ferro-eme proteina come il citocromo c, che contiene ferro in grado di ossidarsi e ridursi ciclicamente, può essere utilizzata per trasportare elettroni quando si trova all’interno della membrana mitocondriale, oppure, una volta liberata nel citoplasma della cellula, essere sfruttata per la sua capacità di interagire con altre proteine citoplasmatiche, generando un complesso multiproteico (apoptosoma) in grado di attivare una serie di eventi che causano la distruzione della cellula (apoptosi).
Un altro esempio di proteina con funzioni multiple ed indipendenti è l’enzima lattato deidrogenasi che, nel citoplasma della cellula, converte il piruvato in lattato all’interno di un processo chiamato glicolisi anaerobia. Tuttavia, in caso di danni indotti a seguito dell’esposizione a raggi ultravioletti, l’enzima viene fosforilato su di un suo specifico residuo di tirosina, migra nel nucleo, si associa con alcune DNA polimerasi stimolando la sintesi del DNA e la sua riparazione.
I meccanismi alla base del cambiamento di funzione delle proteine
In questi due ultimi esempi, è la differente localizzazione della proteina all’interno della cellula che determina il cambiamento della sua funzione. Tuttavia, altri meccanismi possono determinare risultati simili. Per esempio, nel caso di proteine che presentano una struttura o domini intrinsecamente disordinati, l’acquisizione di una nuova funzione è spesso associata ad un profondo cambiamento strutturale (se vogliamo la possiamo considerare una metamorfosi strutturale). Tale evento può essere indotto da variazioni di temperatura, del pH o della forza ionica, da modifiche covalenti a carico di uno o più amino acidi della proteina, o da tagli proteolitici. Tali eventi spingono le proteine a riorganizzarsi strutturalmente, ad acquisire una nuova forma, and interagire con nuove proteine, legare nuovi substrati, acquisendo, di fatto una nuova funzione. È oramai diffusa l’idea che le proteine in grado di subire rilevanti modifiche conformazionali (fold-switching proteins) siano molte più di quelle ad oggi individuate e che tale fenomeno possa acquisire una valenza generale nel contesto cellulare. Un esempio può essere rappresentato dalla proteina STAT3. Questa agisce da trasduttore di segnale e attivatore trascrizionale. Nella forma fosforilata la proteina STAT3 migra nel nucleo dove si lega alle regioni promotrici di un set specifico di geni per regolare la loro espressione. Tuttavia, una porzione della proteina STAT3 è stata ritrovata nel mitocondrio, dove sostiene il processo della fosforilazione ossidativa. In mancanza di tale porzione, la fosforilazione ossidativa mitocondriale è significativamente ridotta a causa di una diminuzione delle attività dei complessi I e II della catena di trasporto degli elettroni.
Le Moonlighting proteins possono essere alla base di alcune malattie umane?
A causa della loro ampia diffusione nel genoma umano, è stata avanzata l’ipotesi che le Moonlighting proteins potessero contribuire allo sviluppo di numerose patologie umane. Nel tentativo di dare una risposta a tale interrogativo, negli ultimi decenni sono state attivate numerose ricerche che hanno generato risultati sorprendenti: sono state censite circa 3.600 proteine coinvolte, direttamente o indirettamente, nell’insorgenza delle patologie umane ed il 78% di queste sono apparse essere Moonlighting proteins. Tale risultato, oltre a confermare l’importante ruolo di questa classe di proteine, suggerisce che molte di esse possano costituire anche dei potenziali bersagli farmacologici.
A fronte di tali evidenze, definire come le Moonlighting proteins contribuiscano all’insorgenza delle patologie umane non è semplice. Tali proteine sono state selezionate dall’evoluzione perché oltre a presentare una “funzione primaria”, sono in grado di svolgere una o più “funzioni secondarie” indipendenti, offrendo un indubbio vantaggio alle nostre cellule. Per esempio, è stato osservato che, in caso di danno o ferita, numerose Moonlighting proteins attivano le loro “funzioni secondarie” che contribuiscono a scatenare una risposta infiammatoria e favoriscono il rimodellamento tissutale e la riparazione del danno.
Questo è il caso dell’enzima glicolitico α–enolasi, la cui “funzione primaria” è quella di convertire il 2-fosfoglicerato in fosfoenolpiruvato nel citoplasma delle cellule. Tale proteina è, comunque, anche in grado di legare il plasminogeno presente sulla superficie di cellule tumorali, leucociti e precursori delle cellule muscolari, favorendone la conversione in plasmina (“funzione secondaria”). La conversione del plasminogeno in plasmina contribuisce alla degradazione delle proteine nella matrice extracellulare, consente la migrazione dei monociti del sangue periferico nel tessuto infetto e permette ai precursori delle cellule muscolari di raggiungere la zona danneggiata del muscolo, per riparare un eventuale danno. In sostanza, le “funzioni secondarie” avrebbero lo scopo di mitigare i disequilibri indotti dalla condizione patologica, ed una volta che il danno è stato riparato, la “funzione secondaria” si disattiva spontaneamente, a causa del ripristino della normale condizione fisiologica.
Nel contesto tumorale, a causa dell’incapacità dell’α-enolasi di riparare il danno, tale meccanismo porta, però, ad una massiva degradazione della matrice extracellulare e ad un rilevante rimodellamento del tessuto, favorendo così la migrazione, l’invasione e la diffusione delle cellule tumorali nei tessuti periferici. Per tale motivo, in alcuni tipi di tumore, l’iperespressione dell’α-enolasi è associata ad una prognosi sfavorevole.
Ovviamente anche le mutazioni possono contribuire a trasformare una Moonlighting protein in un fattore che promuove l’insorgenza di una patologia. Per esempio, la gefirina è una proteina dotata di diversi domini in grado di legare i recettori per la glicina e per l’acido gamma-amminobutirrico, favorendone l’aggregazione ed il corretto funzionamento delle sinapsi inibitorie. La gefirina è, tuttavia, coinvolta anche nella biosintesi del cofattore del molibdeno (MoCo), essenziale per l’attività di vari enzimi quali l’aldeide ossidasi, la xantina ossidoreduttasi e la solfito ossidasi. I pazienti portatori di mutazioni nella porzione della proteina gefirina coinvolta nella sintesi del cofattore del molibdeno presentano gravi anomalie neurologiche, e generalmente hanno un’aspettativa di vita molto breve (sindrome da deficit ereditario di MoCo).
Questi pochi esempi mostrano quanto complicato sia il ruolo delle Moonlighting proteins. Tuttavia, siamo certi che le informazioni ottenute da una approfondita analisi di queste proteine, permetterà di fare luce sui meccanismi molecolari alla base di numerose malattie genetiche e, probabilmente, di sviluppare anche nuove e più efficaci terapie.
Nuovi traguardi nel campo della chimica delle proteine e della biochimica
La scoperta delle “Moonlighting proteins” ha dato nuovo vigore alla biochimica strutturale, e ha fortemente stimolato lo sviluppo di nuove tecnologie mirate a sviscerare le potenzialità di questa affascinante classe di macromolecole. A dimostrazione degli enormi interessi che si sono sviluppati in tale ambito, nel 2024 l’Accademia Reale Svedese ha deciso di assegnare il premio Nobel per la Chimica a tre ricercatori impegnati nel campo dello studio delle proteine. Il primo è stato David Baker, ricercatore dell’Università di Washington, il quale ha coordinato una ricerca finalizzata alla progettazione computerizzata di proteine in grado di svolgere nuove funzioni. Gli altri due ricercatori sono il britannico Demis Hassabis e l’americano John M. Jumper, entrambi ricercatori dell’azienda Google DeepMind. Essi hanno sviluppato un programma chiamato AlphaFold2, che quale sfrutta l’intelligenza artificiale in grado di predire la struttura delle proteine. Nei prossimi anni, grazie a tali metodi e tecnologie, la progettazione di nuove proteine diventerà una realtà quotidiana, con ricadute in campo economico, sanitario, e sociale ancora difficili da prevedere.
Conclusioni
In conclusione, la scoperta delle “Moonlighting proteins” ha rivoluzionato il mondo della biologia. Queste proteine rappresentano una realtà affascinante e testimoniano gli sforzi fatti dal punto di vista evolutivo per trovare la soluzione più adatta all’enorme complessità cellulare. A questo punto, sta a noi compiere un ulteriore sforzo per comprendere il vero ruolo delle “Moonlighting proteins” all’interno del contesto cellulare confidando nel fatto che esse potrebbero spiegare fenomeni ancora non chiariti, o addirittura l’eziologia di alcune patologie umane.