La ricerca scientifica fondamentale durante e dopo la pandemia
Introduzione
Il grave allarme per la salute pubblica e la grande incertezza sulla nostra capacità di fronteggiare una nuova malattia pandemica, ripropongono con evidenza il rapporto tra società e scienza. La malattia si presenta come un’assoluta urgenza, per l’elevata contagiosità e letalità indicate dai dati finora raccolti; in aggiunta alla minaccia contro la vita dei singoli individui, la pandemia e le misure necessarie a contenerla sovvertono le modalità di relazione sociale, colpiscono a fondo la nostra economia e mettono in discussione convinzioni etiche e morali che ci sembravano indiscutibili. Sono giorni di grande preoccupazione e di intenso dibattito pubblico sul ruolo della medicina e della ricerca scientifica
Alla scienza vengono poste domande a cui su breve scala temporale è difficile fornire risposte univoche. Alle domande del pubblico spesso gli scienziati rispondono onestamente dichiarando la propria ignoranza o proponendo ipotesi e teorie che appaiono anche contraddittorie ma che sono il frutto della modalità consueta con cui lo sviluppo scientifico si realizza per fasi successive: ipotesi, verifiche, confutazioni e conferme.
La medicina, come avviene in genere per la tecnologia, risponde alla malattia con maggiore prontezza della ricerca scientifica fondamentale: molti aspetti della malattia sono trattabili e vari tipi di terapie possono significativamente ridurne la letalità, anche se la reale efficacia dei singoli farmaci e procedure non è ancora pienamente dimostrata.
Per molti aspetti l’urgenza della pandemia enfatizza il bisogno di una ricerca immediatamente applicabile rispetto alla ricerca fondamentale, finalizzata a produrre conoscenze la cui applicabilità non è immediata, e che presenta tempistiche diverse e più lunghe.
Se l’urgenza del momento detta priorità ineluttabili (risposta medica, risposta economica, ricerca orientata al vaccino e alla terapia), è necessario però tenere presente che le scelte del periodo emergenziale non sono in genere le più produttive sul lungo termine; in prospettiva è necessaria una rielaborazione del rapporto tra ricerca fondamentale finalizzata alla conoscenza, ricerca applicata e pratica clinica; il continuum della “medicina traslazionale”.
Come ricercatori che si occupano di meccanismi molecolari biologici riteniamo di non poterci sottrarre ad una riflessione sulle modalità con cui scienza e medicina rispondono a una emergenza sociale come questa e ci sembra opportuno riaffermare la differenza sostanziale tra i modi e i tempi con cui alla società si possono fornire risposte mediche e nuove conoscenze scientifiche.
È indubbio che, pur nell’incertezza di fronte a un agente patogeno del tutto nuovo e così insidioso, il ruolo della ricerca scientifica sia stato e rimarrà fondamentale, ma noi riteniamo che sia necessario scomporlo in fasi logicamente e cronologicamente distinte.
Nei confronti del nuovo virus sono stati applicati in tempi molto rapidi protocolli scientifici già validati e di provata efficacia: ad esempio, il genoma virale è stato sequenziato molto rapidamente da vari laboratori così da creare le condizioni per una diagnosi precisa; il virus è stato identificato e le sue mutazioni sono state seguite geograficamente e cronologicamente. Questa ricerca è stata svolta in gran parte in ospedali e strutture ad essi collegate ed ha avuto un’importanza fondamentale. Conoscenze scientifiche pregresse associate a una profonda cultura medica e biologica sono risultate essenziali per rendere possibili alcune geniali intuizioni come la terapia mirata contro l’interleuchina 6, testata in modo sperimentale e contemporaneamente in Cina (a Wuhan) e in Italia (a Napoli).
Tuttavia, per una risposta più completa e mirata della medicina clinica e sperimentale (traslazionale) mancano al momento elementi scientifici certi su cui basare interventi molecolari mirati, ed è necessario rivolgersi a conoscenze scientifiche acquisite attraverso lo studio di patologie simili. Si riparte allora dalla “evidence-based medicine”, proponendo trials con i farmaci già disponibili, scelti per la somiglianza tra la malattia nella quale sono indicati e quella di recente insorgenza, e dalla medicina pragmatica.
Integrazione della ricerca biomedica fondamentale, della ricerca clinica e della pratica clinica.
Risulta chiaro che i tempi, le azioni e le prospettive di ricerca scientifica e medicina clinica sono significativamente diversi. I contributi della ricerca scientifica alla salute spesso non derivano nemmeno dal perseguimento degli obiettivi inizialmente dichiarati, ed al contrario la scoperta più importante è spesso anche quella più imprevista, soprattutto in ambito biomedico. D’altra parte, è evidente che la ricerca medica applicativa consegue alla ricerca fondamentale: qualunque vaccino moderno, per quanto tecnologicamente avanzato e frutto di intuizioni geniali, è figlio del vaccino di Jenner e delle ricerche di Pasteur e nipote di osservazioni precedenti sull’immunità conferita dalla vaiolizzazione. Il percorso della scoperta scientifica e del suo costante perfezionamento non consente scorciatoie: il prodotto finale non esisterebbe se non ci fosse stata un’idea originale magari alquanto lontana da qualunque potenzialità applicativa al tempo del suo concepimento.
E’ sotto gli occhi di tutti la lacerante differenza tra le scale temporali della ricerca fondamentale e quelle della ricerca applicata: la mancanza di un lavoro scientifico precedente controllato apre a rischiose scorciatoie, apparentemente giustificate dall’urgenza, ma che poi spesso naufragano. Non si può improvvisare nulla e, se il caso aiuta la mente preparata, questo implica che è necessario preliminarmente preparare la mente, con una adeguata formazione ed esperienza di ricerca. Noi vediamo l’integrazione tra la ricerca fondamentale, la ricerca applicata alla medicina e la medicina clinica come un processo circolare, arricchito da continui fenomeni di retroazione. Ciò che viene scoperto nel laboratorio fondamentale viene poi arricchito e perfezionato nel laboratorio ospedaliero o industriale, ed infine validato nell’ospedale con le procedure della ricerca clinica; ma ogni passaggio può generare domande o fornire informazioni ai passaggi precedenti e guidarne quindi l’evoluzione. Nessun anello di questa catena è rinunciabile.
Il problema dell’accettazione sociale della ricerca fondamentale
Un ostacolo cruciale all’integrazione e alla reciproca fertilizzazione della ricerca fondamentale, di quella applicata e della pratica clinica viene dalla diversa percezione di queste attività da parte del pubblico, e conseguentemente della politica che del consenso del pubblico ha bisogno. Il pubblico infatti non ha in genere consapevolezza della stretta connessione tra i diversi tipi di ricerca e tra questi e la pratica; di fronte alla notizia di una scoperta scientifica di solito si chiede a che cosa serva e quale vantaggio sociale se ne possa ricavare. Capire il meccanismo molecolare dell’immunità è apparentemente meno utile che produrre un vaccino, e per il pubblico non è ovvio che il primo momento sia preliminare al secondo e che ogni tentativo di separarli sia destinato all’insuccesso. In effetti non può fare il secondo passo chi non abbia fatto il primo.
Occorre, quindi, un’attenta azione divulgatrice che convinca tutti della necessità del lavoro scientifico fondamentale, che deve essere una costante nel tempo e deve essere continuativamente finanziato. È vero che non esiste una disciplina superiore alle altre, ogni disciplina è importante di per sé, tuttavia sono le discipline fondamentali che sostengono lo sviluppo di tutte le altre, fornendo loro strumenti innovativi che poi trovano applicazione pratica. In aggiunta alla considerazione che nessuna politica della ricerca può essere sviluppata contro il desiderio del cittadino-elettore, la promozione della cultura scientifica nella popolazione è necessaria per assicurare il ricambio generazionale dei ricercatori. È abbastanza evidente che l’Italia risulta gravemente carente su molti degli ingredienti necessari per una sana politica della ricerca scientifica. Un’educazione scientifica dovrebbe permeare trasversalmente le professioni e la classe dirigente. Non ci sfugge come questa attualità ci insegni che a partire dalle scuole sia molto importante rilanciare una forte formazione scientifica di base. Nelle Facoltà biomediche questa educazione scientifica deve proseguire per mettere il medico in condizione di conoscere i principi su cui si basano i presidi diagnostici e terapeutici innovativi e permettergli di governarne al meglio limiti e potenzialità.
In questo contesto, l’impegno della comunità scientifica deve essere quello di mantenere coerenza e consapevolezza di sé, e di cercare un dialogo con il pubblico, finalizzato alla divulgazione piuttosto che all’affermazione personale dello scienziato. Si sente forte l’esigenza che la comunità scientifica esprima coesione sul valore fondamentale della ricerca scientifica libera, non necessariamente finalizzata allo scopo di ottenere un prodotto. Ci piacerebbe che questa voce provenisse dalle comunità scientifiche stesse che, al loro interno possono coltivare il fermento intellettuale e proporlo all’esterno, non nella forma di conflitto tra scienziati più o meno celebri, ma come il prodotto di un lavoro intellettuale e sperimentale che necessariamente si nutre di ipotesi, anche contrastanti, e accese discussioni, normali quando ci si muove ai confini delle conoscenze.
Considerazioni conclusive: dall’emergenza ad una nuova normalità
Se la pandemia ha forzosamente interrotto l’attività di ricerca fondamentale in Italia, le considerazioni svolte fino a questo punto suggeriscono che la traiettoria evolutiva pre-pandemica della ricerca non poteva essere considerata particolarmente desiderabile. Dall’emergenza prima o poi inevitabilmente usciremo, sia per una normale evoluzione biologica delle cose, sia per le nuove conoscenze costantemente prodotte dalla ricerca applicativa, solidamente basata su conoscenze fondamentali precedentemente acquisite. Occorre uscire dalla mentalità perdente che dice che solo il “distanziamento sociale” potrà salvarci: c’è molto altro, incluse terapie innovative e vaccini. In questo momento di transizione e domande sul futuro è opportuno interrogarsi sulla possibilità di un aggiustamento di rotta. Il primo passo di questo processo è forse necessario anche all’interno alla comunità dei ricercatori e richiede una forte condivisione dei valori fondamentali che superi la tendenza alla competizione tra scienziati, ora fortemente accentuata dalle pressioni esterne, esercitate anche dalle agenzie di valutazione e finanziamento.
Il secondo passo del processo di rivitalizzazione della ricerca fondamentale dovrebbe essere rivolto al pubblico, e può essere promosso da una comunità scientifica che abbia raggiunto una minima coerenza interna. Gli scienziati devono divulgare la logica e le ragioni delle proprie ricerche ed aiutare un processo di evoluzione culturale della società. Il compito può apparire immane, ma in fondo gli scienziati sono in maggioranza anche docenti e la divulgazione della cultura scientifica è per loro una attività quotidiana: occorre semplicemente avere cura che parte di questa attività raggiunga anche persone che non frequentano le aule universitarie. La società civile dovrebbe conoscere meglio cosa sia, e come procede, il Metodo Scientifico. E di conseguenza quali domande possono essere legittimamente rivolte alla scienza, e che tipo di risposte ci si può aspettare di ottenere. Le domande sbagliate, invece di un opportuno silenzio, possono a volte portare a risposte sbagliate e a certezze che non esistono.
La sensibilizzazione del decisore politico, anche in relazione al finanziamento della ricerca, costituisce il terzo passo del processo. Se gli stessi scienziati spesso non sono d’accordo tra loro circa l’importanza strategica delle singole aree su cui investire, come si può pretendere che lo sia la politica? Quindi, non possiamo indicare alla politica dove investire, ma solo di investire, senza attendersi necessariamente un ritorno applicativo nel breve periodo. L’investimento nella ricerca dovrebbe essere una voce intoccabile, fissa e obbligatoria nel bilancio di uno stato civile, moderno e lungimirante, con una distribuzione delle risorse più ampia e trasparente possibile.
Non occorre avere molto denaro, ma averne sempre ogni anno da investire in modo costante, anche per il reclutamento e la preparazione di nuove forze, indispensabili per la continuità della ricerca. Un finanziamento minimale garantito previene inoltre il ricadere nella competitività tra scienziati e promuove invece logiche di collaborazione, certamente più produttive. Anche la modalità di erogazione e percezione dei finanziamenti dovrebbe essere semplificata e dovrebbe basarsi su un rinnovato patto di fiducia tra scienza e politica, oggi chiaramente in crisi, come testimoniato dalla riduzione dei finanziamenti e dall’aumento degli obblighi burocratici. Occorre immaginare che tutto il tempo e l’energia che lo scienziato mette nella burocrazia della ricerca è tempo ed energia sottratta allo sviluppo della conoscenza. Come scienziati, la chiameremmo entropia. Gli scienziati non sono burocrati, non hanno schiere di impiegati che lavorano per loro per compilare moduli, non sono aziende private. Sono persone che hanno dedicato la loro vita alla ricerca ed alla scoperta di nuove conoscenze. Lasciamoglielo fare, perché di solito funziona.